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Un breve racconto sui maltrattamenti e la violenza domestica. ''La ragazza fontana', di Alessandra Monticone, nella raccolta: 'Ti amo, ti odio'. Editore Arnoldo Mondadori, 2015, Milano

Dalla famosa poesia di Catullo, il titolo per questo piccolo libro contenente 25 racconti. Uno è mio, riguarda la violenza domestica, ed è stato appena pubblicato dalla casa editrice Mondadori. Leggetelo e inviatemi tramite mail in 'contatti' i vostri pensieri e suggestioni, saranno per me preziosi.

LA RAGAZZA FONTANA®

di Alessandra Monticone

Arnoldo Mondadori Editore Spa©

 

Mi guardava con due occhi sgranati, indecisa se sorridere o restare seria, osservando il mio strano disegno che rappresentava una grossa e spessissima croce marrone formato A4 che andava a negare e nascondere una fontana di chiarissima acqua zampillante. “E’ il mio simbolo, rappresenta come mi sento”, risposi, “e tu, cos’hai disegnato?” Margherita, la mia compagna di quel corso annuale sulla gestione dei conflitti tenuto da un illustre accademico esperto in mediazione, aveva rappresentato una figura molto elementare e grigia, la sorella, che le rubava i vestiti dall’armadio. “Lo so, Giulia, ma ho rappresentato l’unico esempio di conflitto che mi è venuto in mente…sarà banale?” Non sapevo se lo fosse, ma sul momento ebbi la consapevolezza che neppure Margherita avrebbe mai potuto capirmi. 

Da quando ero nata, figlia unica, da una mammina di diciannove anni e da un padre più grande, i miei ricordi dai tre anni erano stati molto nitidi. Non credo che a quattro anni ci sia una sorta di ‘reset’ della memoria, contro l’opinione di alcuni ricercatori, o forse io rappresento l’eccezione. I miei ricordi più forti e negativi sono le urla, mio padre che afferra il braccio di mia madre, lo gira dietro la schiena e la butta per terra, in camera mia, vicino al mio letto. Ricordi di allontanamenti veloci e suppliche del marito, pentito e in lacrime, affinché la moglie tornasse a casa, lasciando minacciosamente presagire, con biglietti d’amore, un suicidio in caso contrario. E’ sempre stato lui, la figura forte ed intelligente, a decidere se, dove e quando io potessi spaventarmi. “Ti ho detto di stare tranquilla, hai capito?” urlava alzando un braccio. Non sopportava che io piangessi. Le liti dei miei iniziavano quasi tutti i giorni, sempre all’ora dei pasti, come una medicina. Non potevo allontanarmi dal tavolo della cucina, mio padre diceva che dovevo stare lì a sentire, ma nello stesso tempo mi ordinava di andare via, accusandomi che, prendendo le parti di mia madre, lo lasciassi solo ed incompreso. Insomma, non potevo né fuggire, né restare. Mia mamma, senza un lavoro, negato da mio padre, e senza appoggio familiare, stava molto male, cresceva come una pianta potata in una stagione sbagliata. Mio padre aveva questa caratteristica: non dovevi dire cose che a lui non piacessero. Temevo per mia mamma. Quando m’inginocchiavo a terra pregandolo di smettere, di smettere, ti prego, ti prego, smettila, ti prego, lui mi guardava con occhi rossi incontrollabili e la bava alla bocca, come se proprio non potesse in nessun modo capire cosa cavolo volessi io, perché mai dovessi spaventarmi. Mi spiegava, mio padre, che non era mai successo niente di grave, dopotutto, e che la mia sofferenza era causata da una mia ipersensibilità patologica, e non sicuramente dal suo comportamento. Dovevo farmi curare, così come mia madre, diceva lui. Mi sentivo colpevole del mio star male. Mi iscrissi a Psicologia, la facoltà, dicono, di quelli che vogliono risolvere un qualche problema nella vita. Poi mi iscrissi al master per la gestione dei conflitti, dove quelli che non hanno risolto i problemi all’Università, cercano di farlo altrove. Dopo trentacinque anni, il carattere violento di mio padre è ancora intatto. I problemi non si sono affatto risolti. Non si può denunciare e poi restare nella stessa casa. Con il volontariato ed il lavoro precario ho acquisito strumenti di analisi che i miei clienti ritengono essenziali e di grande valore: quando escono dai miei colloqui, mi dicono di essersi sentiti compresi ed ascoltati, i loro occhi, a volte, si illuminano di un flash interno, riorganizzano la loro vita e si rendono conto di avere risorse inespresse. Tutto questo l’ho imparato altrove, non certo all’Università, tengo a precisare. Trascorrevo gli anni nella paura e bloccata nel comunicare. Quando ero fuori casa per una vacanza, che mi concessi per la prima volta, senza di loro, solo dopo i diciotto anni, mi chiedevo cosa sarebbe potuto accadere senza il mio intervento. Il giorno in cui tornai, accadde che mio padre s’innervosì perché avevo lasciato la sua scrivania, che a volte usavo per studiare, piena di cose mie in disordine. Iniziò a scaraventare tutto a terra, con ampi gesti delle braccia, dandomi della rompicoglioni, per poi accorgersi che non c’era nulla di mio su quella scrivania, erano tutti oggetti suoi. Non si scusò. Quando ebbi circa ventisei anni, mi accusò di volerlo investire con la mia auto. Ecco come andarono le cose, un episodio che mi fece troppo male, come una spada nel cuore: dopo alcune ore di urla, sputi, strappi delle maniche della camicia, avevo deciso di scappare giù dalle scale. Avrei lasciato là mia mamma, tanto ormai se l’era presa con me. Lui arrivò come una furia, io mi chiusi in macchina, con le ciabatte, senza occhiali, con il cuore in gola. Mi ordinò di scendere. Accesi il motore. Diede calci alla mia portiera, fece un bollo che ancora testimonia la sua furia, cercò di rompere la maniglia. Io partii piano piano. Lui saltò sul cofano. Feci partire i tergicristalli per dargli fastidio affinché scendesse. Si aggrappò ad essi. Ero in un incubo. Sudavo, in quel momento decisi che quello non poteva essere mio padre, nonostante mia madre mi ripetesse sempre che lui mi voleva bene. Mi assalì la nausea, mal di stomaco, mi tremavano le mani. Accelerai un pochino, due metri, poi frenai per farlo cadere, ma lui restò aggrappato. Lo portai così, avvinghiato, davanti al negozio di suo cugino. Tutti guardavano dalla vetrina. Nessuno uscì. In quel momento, presi la dolorosa coscienza che nessuno mai mi aveva dato aiuto, né lo avrebbe fatto in futuro. Di cosa mi stupivo? La frase più tagliente e brutale la sentii pronunciare a mia madre dalla sorella di mio padre, che ascoltava tutti i nostri litigi dal piano di sopra: “Io non ho mai visto i lividi, quindi come faccio a crederti­? E poi ci sarà un motivo se fa così. E’ così gentile con noi, tuo padre”. Accelerai e frenai tre volte per un totale di sette metri, sempre davanti alla vetrina del negozio. Non si staccava dal cofano. Finalmente saltò giù, non si fece nemmeno un graffietto. Accelerai per andarmene. Saltò davanti alla macchina. Io partii piano spingendolo di fianco. Non volevo mica essere violenta come lui! Non ci vedevo bene, ma correvo verso la Stazione dei Carabinieri. Le uniformi mi avevano ribadito che non si poteva far nulla se il soggetto non era colto in flagrante, quindi tornai indietro. Piansi tre giorni. Piango ancora oggi. Non parlai con nessuno. Da quel giorno mio padre mi accusa di quest’atto come un premeditato tentativo di farlo fuori. Studiavo ipotetici e rudimentali metodi ‘artigianali’ per interrompere i maltrattamenti di mio padre su mia madre, tipo spaccargli un pintone di vino in testa sul momento, bastonarlo, fingere di essere impazzita, fidanzarmi con un energumeno buttafuori violento, diventare amica di un’esperta in diritto, allora a me sconosciuto, sulla non violenza e contro i maltrattamenti, obbligarlo ad allontanarsi da casa. Niente di tutto questo è successo, non ce l’ho fatta, fino ad ora. Le uniche armi a mia disposizione per sopravvivere sono state l’amore e l’allegria di mia mamma, l’ironia, il permettere ad un ragazzo di amarmi davvero con tutta la forza possibile, la forza di allontanarmi, le mie poesie, lo studio, il frequentare famiglie diverse, il permettere alla bambina di trentacinque anni triste e sola di piangere quando vuole piangere e urlare quando vuole urlare.  Resta in ballo la richiesta, non esaudita, che ho fatto a mio padre, di non negare e ammettere davanti a tutti il male che ha fatto. Non ci saranno mai né scuse, né consapevolezza e presa di coscienza, ma basterebbe quella parola, scusa, ed io sarei guarita, avrei nuovamente fiducia nel genere umano.

Cerco un punto luce, ma non un diamante, una luce dall’alto, come se in mezzo ad una foresta di alberi fitti e altissimi, quasi neri in cima, volessi scorgere uno ‘sfuocato puntino ed aggrapparmi ad esso, sperando che regga’, come dice il verso di una mia poesia. Margherita, quel giorno, al corso, ha disegnato due pupazzi, me e mio padre, su un prato, a parlare, ma un po’ a distanza. Pensavo non avesse capito, invece ho trovato nel suo disegno uno ‘sfuocato puntino’ di luce e una nascosta fonte zampillante.

Giulia, la ragazza fontana.

                                                                      



Un aiuto ed un sostegno psicologico: quando?

 

Quando ciò che ha sempre funzionato non funziona più…

Esistono tanti disagi psicologici quanti se ne possono immaginare. Ognuna di queste sofferenze, tuttavia, ha una sua via d’uscita. Come costruiamo le nostre ‘psicotrappole’, così possiamo costruire le nostre ‘psicosoluzioni’. Nessun disagio è, di per sé, patologico, ma è il ripetersi ridondante , il ripresentarsi costantemente, a trasformare un disagio in problema e poi in patologia. Ad esempio, prestare attenzione al gradimento che gli altri hanno di noi è un modo adatto a sviluppare ottime competenze relazionali, ma quando questo atteggiamento diviene estremo e alimenta un dubbio costante di non essere apprezzati e di essere rifiutati, si trasforma in paranoia. Oppure, pretendere di avere il controllo delle proprie reazioni è sicuramente utile e positivo, ma portato all’eccesso, l’estremo controllo porta al paradosso di perdere il controllo, trasformandosi in disturbo fobico e ossessivo. Tutti tendiamo a replicare ciò che in passato ha funzionato, a pensare che se non funziona più è perché non insistiamo abbastanza, in realtà stiamo applicando una soluzione non idonea al problema attuale, che è solo apparentemente simile a quello del passato, e non isomorfo.  G. Nardone, CTS, Centro di Terapia Strategica

 


Paura.

La paura patologica è il disturbo più diffuso, milioni di persone ne soffrono e l'Organizzazione Mondiale della Sanità l'ha definita come il disturbo più importante tra le patologie umane, in quanto colpisce il 20% della popolazione (e questo solo all'inizio del 2000). Chiunque soffra di tale disturbo, con numerose tipologie, sia che si tratti di sindrome da attacchi di panico, agorafobia, paure di ogni genere, mette in atto in modo ridondante tre tentate soluzioni disfunzionali: l'evitamento, la richiesta di rassicurazione ed aiuto, il controllo che fa perdere il controllo. La combinazione di queste tre modalità di affrontare il disturbo conduce, in pochi mesi, ad una patologia. Una terapia efficace deve mirare a interrompere questo circolo vizioso, iniziando ad attuare una tecnica definita la 'peggiore fantasia', per cui la 'paura guardata in faccia si trasforma in coraggio, mentre la paura evitata diviene timore'. Qua lo stratagemma porta paradossalmente ad azzerare le sensazioni spaventose.


Insistere non serve.

Qualsiasi nostro comportamento, se diventa un copione ripetuto sino all'estremo, perde la propria efficacia. L'eccesso conduce alla patologia. Insistere in un'azione anche quando non funziona, pensando che prima o poi funzionerà, porta a conseguenze controproducenti. Questa modalità di agire è insita nella natura umana poiché ogni sistema vivente, quindi anche l'uomo, tende alla omeostasi, in altre parole cerchiamo di mantenere l'equilibrio raggiunto e resistiamo al cambiamento. Come dice Einstein, però, l'uomo può modificare il proprio agire disfunzionale, superare le proprie resistenze e trovare una soluzione ai propri problemi. In che modo? Prestando attenzione ai propri modelli di comportamento e alle tentate soluzioni che reiterano e mantengono il problema.


Le aspettative nei riguardi altrui.

L'inganno che più di frequente si osserva è la tendenza ad attribuire ad altri le nostre convinzioni e percezioni, aspettandosi da questi un certo tipo di azione o reazione. Tenendo conto che ognuno di noi è cresciuto attraverso esperienze differenti, modalità percettive specifiche e con caratteristiche biopsicologiche irripetibili, queste aspettative sono destinate a non verificarsi quasi mai. In situazioni di grande coinvolgimento emotivo ci aspettiamo che gli altri facciano quello che faremmo noi al loro posto, portandoci a sconfitte, delusioni amare, depressione o reazioni di rabbia e aggressività fuori controllo. Come uscire da questa trappola? Evitando di irrigidirci nella nostra prospettiva come se fosse l'unica e la migliore.


Logica e razionalità e tutto va bene!

Mai concetto fu più inefficace e pericoloso. L'ipersoluzione del razionalismo (Watzlawick) ci spinge a credere che con la razionalità si spieghi tutto e si possa controllare tutto. Questo autoinganno, prodotto da millenni di filosofia e logica a partire da Aristotele, assume un aspetto pericoloso quando diviene rigido e assoluto. Hegel addirittura sosteneva che 'se la teoria non concordava con i fatti, tanto peggio per i fatti!'. Nessuna spiegazione razionale o calcolo matematico, argomenta uno dei più grandi logici e filosofi del Novecento, L. Wittgenstein, più aiutarci quando amiamo qualcuno che non ci ama, quando veniamo traditi da un amico, quando abbiamo paura. Ad esempio, il fatto di poterci razionalmente fidare che l'aereo è un mezzo di trasporto sicuro, non ci aiuta a superare del tutto la paura del volo.



Perché le persone non riescono a dimagrire?

Una ricerca durata ben 18 anni commissionata dalla rivista American Psychologist ha portato ad osservare una decina di migliaia di soggetti negli effetti dello stare a dieta o meno. Oltre l'80 % dei soggetti a dieta risultava in netto sovrappeso, viceversa oltre il 70 % dei soggetti non a dieta rientrava nei parametri di normopeso. La conclusione inevitabile è che stare a dieta fa ingrassare. La trappola del controllo ossessivo dell'alimentazione per perdere peso esprime tutta la sua portata nelle conseguenze di far perdere totalmente il controllo. L'indicazione della 'dieta paradossale' è quella di mangiare solo e soltanto ciò che piace di più, con indicazioni precise sulle modalità di attuazione. L'effetto è che le abbuffate svaniscono poiché il piacere imposto si trasforma in obbligo, e la persona inizia a perdere peso. 'L'unico modo per superare una tentazione è cedervi'? diceva Oscar Wilde. La terapia non è tutta qui descritta, naturalmente, dovendo essere seguita scrupolosamente da uno specialista.


Pensa positivo...

L'esercito di coloro che credono fermamente nell'ottimismo e nel pensiero positivo continua a proliferare, una sorta di 'moderna religione basata sulla capacità dell'uomo di influenzare il proprio destino mediante il pensiero ottimistico' (Nardone G.). Chi si occupa seriamente di psicologia sa, invece, che tale meccanismo funziona molto più in negativo che in positivo e in tale secondo caso gli effetti sono tali solo quando il meccanismo è inconsapevole. Quando il meccanismo è volontario, si ottiene l'effetto opposto: quando sono triste e mi dicono di pensare positivo, oppure mi sforzo di farlo, mi deprimo ancora di più. L'effetto placebo e l'effetto aspettativa funzionano solo se involontari e incoscienti. Non dovremmo MAI applicare il pensiero positivo di fronte a percezioni/emozioni come paura, rabbia o dolore, perché verrebbero esasperate. Il pensare positivo funziona bene solo quando si hanno già esiti di successo, per confermare ed amplificare la fiducia in noi stessi, mai in altri casi.


Trovo sempre l'uomo-la donna sbagliata.

Leon Festinger, psicologo del Novecento, ha formulato la teoria della dissonanza cognitiva-emotiva: una volta presa una decisione, l'uomo e la donna cercano tutte le prove che confermano la scelta ed evitano selettivamente tutte le prove che la sconfermano. Se, ad esempio, decidessimo di stare con un certo partner, cercheremmo tutte le conferme della sua 'superiorità' rispetto ad altri, chiudendo gli occhi difronte ai possibili limiti e difetti che qualcuno potrebbe evidenziare rispetto a quella persona. Alla fine, dopo qualche tempo, emergerebbero situazioni negative alle quali non avevamo dato peso, ma che erano già presenti.  Una persona aggressiva, ad esempio, sopravvaluta il minimo giudizio ricevuto e lo percepisce come provocazione, arrivando ad essere violento. All'opposto, una persona bendisposta difficilmente coglie i segnali di pericolo anche in persone palesemente inaffidabili.

Per non cadere in questa trappola disfunzionale teniamo presente che, al di là di quello  che sentiamo nel cuore e vediamo con gli occhi, c'è un mondo che non può essere ignorato. L'unico modo per non cadere in questa trappola è mettere l'altro nella condizione di dimostrare concretamente il proprio valore, non solo a parole, ma con i fatti. Quante volte i genitori giustificano i figli anche quando sono colpevoli? Quanti uomini sopravvalutano le proprie capacità? Quante donne , convinte dei propri difetti fisici, si sottopongono a continui interventi sino a non poterne fare a meno?


Sono insicuro. Ma non ne sono certo.

L'insicurezza non può essere definita come una patologia, ma quando si generalizza e diventa incapacità di decidere può tramutarsi in tale. Chi è costantemente bloccato nelle decisioni sopravvaluta gli altri e le difficoltà che deve affrontare e sottovaluta se stesso e le proprie risorse. Una variante ossessivo-compulsiva di questo disagio è il dubbio patologico, ovvero l'esigenza ossessiva di valutare in anticipo tutte le conseguenze di una scelta, con l'illusione del ragionamento perfetto. Una delle modalità per gestire alcuni tipi di insicurezza basate sull'ansia, con prevalente tratto fobico, è la strategia del 'spegnere il fuoco aggiungendo legna', ovvero suscitare ed alimentare in modo controllato la paura di chiedere aiuto e conferma.


Sulla scuola e sulla famiglia...

Utilizzando una logica definita ‘non ordinaria’ si possono sbloccare situazioni apparentemente senza via d’uscita se utilizzassimo la logica ordinaria.

Un esempio, tra tanti e diversi,  sull’utilizzo del paradosso. Alcuni figli vengono valorizzati all’eccesso, sia dai genitori, sia dagli insegnanti, seppur non ottengano risultati eccellenti. Paolo frequenta la scuola media con scarsi risultati scolastici. Gli insegnanti continuano a ricordare al giovane le sue eccellenti capacità ed intelligenza, purtroppo senza risultati concreti, in quanto l’allievo ‘non si applica’. I genitori elogiano Paolo perché è veramente in gamba, curioso, intraprendente, ma se solo studiasse di più… In questa situazione dobbiamo osservare quali sono le modalità comunicative e gli effetti, senza andare a ricercare le cause del disagio (queste emergeranno alla fine, e solo dopo si potrà capire come ‘funziona’ il problema). Paolo è sopravvalutato da tutte le persone attorno a lui. Questa osservazione porta a una considerazione: perché Paolo dovrebbe impegnarsi a studiare? E se studiasse e non ottenesse i risultati grandiosi che tutti si aspettano da lui? Perché rischiare e buttare all’aria questa situazione in cui col minimo sforzo ottiene la massima considerazione? Il non impegnarsi a scuola è la strategia che Paolo usa per salvaguardare l’autostima agli occhi altrui, evitare rischi e ottenere privilegi (in realtà questa situazione lo porterà a sviluppare una profonda insicurezza nelle proprie risorse, diventando arrogante e timoroso allo stesso tempo). In questo caso si deve intervenire bloccando la comunicazione che crea il problema e anziché risolverlo, lo alimenta. Sotto indicazione del consulente, i genitori convocano Paolo in salotto e iniziano a dirgli “Caro Paolo, ti dobbiamo dire che io e tua madre forse abbiamo sopravvalutato le tue risorse. Ti abbiamo sempre detto che sei intelligente e bravo, che solo se avessi voluto avresti ottenuto risultati eccellenti, ma probabilmente ci siamo sbagliati di grosso, visto che i tuoi risultati continuano a essere scarsi. Avremmo voluto un figlio capace, determinato, ma purtroppo ci sei capitato tu. Ma non importa, ci teniamo a dirti che sei sempre nostro figlio e ti amiamo tanto”. Posto di fronte a questa sconvolgente modalità comunicativa, paradossale rispetto alla logica comune che vorrebbe che si continuasse a motivare il giovane, questi, offesissimo, ha un’unica possibilità per riguadagnare la stima dei genitori: iniziare a impegnarsi per meritarsi la stima altrui, sperimentando per la prima volta il piacere dei successi ‘sudati’ e iniziando così l’affascinante percorso di costruzione della propria autostima. E così ha fatto il ragazzo. La nuova comunicazione ha permesso una ‘ristrutturazione’ del sentire e del percepire del giovane, un nuovo modo di vedere il mondo (esempio tratto da Roberta Milanese).



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Per gioco e per riflettere!
Test di 'Reagan Nancy'.doc
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Alessandra Monticone

Psicologa e Consulente di Comunicazione e relazioni interpersonali

Iscrizione Albo Nr.7352: vedi il sito dell'Ordine degli Psicologi del Piemonte

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Sede: Asti e provincia